CASERE (Malghe) del
Comelico
di
Achille Carbogno
Sopra
la fascia delle peccéte (boschi di abete rosso in prevalenza) si aprono i PASCOLI
ALPINI, “l’affascinante
mondo dell’alpe”, ultima frontiera dell’uomo allevatore-pastore. Pur
limitata alla breve stagione estiva questa attività è testimoniata da
“segni” e strutture che confermano un rapporto antico: spietramento e
decespugliamento sistematico – reticolo di sentieri e mulattiere – pozze
artificiali per l’abbeveraggio – resti di grossi covoni di fieno (“mèdi”)
– recinti di sassi per il ricovero notturno degli animali (“mandri”) –
stalloni ampi per un riparo migliore e permanente – infine “casère” (da
“caseària”), costruzioni dove si lavorano i prodotti del latte e trovano
riparo i pastori.
Il sistema delle casère comeliane occupa generalmente i versanti assolati, ad
una quota media di 1800-2000 metri, come ANELLO IDEALE che lega tra loro i vari
pascoli alpini, che segna in maniera forte ed incisiva l’industriosa presenza
dell’uomo nel passato. Queste “monti” (al femminile) trovano
frequenti e consolidate citazioni nelle pergamene notarili fin dal XII secolo:
su queste praterie avveniva già allora la MONTICAZIONE ( “muntiè”,
in dial. ladino) verso la fine di giugno, natività di S. Giovanni Battista.
L’alpeggio si concludeva “desmuntiè” alla fine di settembre (S.
Michele). L’uso dei pascoli,
tutti di antica proprietà regoliera, era guidato da norme rigide e minuziose
contenute nei “Laudi”; esse contemplavano la diversa appetibilità e comodità
e le priorità riservate agli animali più importanti. Le vacche lattifere
avevano la precedenza, seguivano manze, vitelle, cavalli ed altro animale
minuto.
Casàro, pastori ed aiutanti provvedevano alle varie incombenze secondo una
gerarchia ed un “mansionario” complessi ed articolati (NB* apposita sezione
sarà dedicata a questi aspetti organizzativi). Il cuore della casèra era il “tlèi”
(“celarium”, una stanza fresca a nord ove venivano conservati burro e
formaggi in attesa della periodica distribuzione). Nel tardo pomeriggio, al
rientro, le vacche sostavano nel “ciampèi”, terreno erboso attiguo
agli stalloni, in un festoso scampanio di “sampògni” e “ciampanéli”,
prima di essere ricoverate per la mungitura ed il riposo ristoratore.
Oggi dopo mille e più stagioni si assiste alla progressiva rinuncia
dell’uomo. Le casère cessano la loro attività plurisecolare, si trasformano
in aziende agrituristiche per un’ultima dignitosa sopravvivenza, oppure si
avviano a diventare un semplice toponimo sulle carte escursionistiche. Eppure
esse rappresentano ancora un MUSEO A CIELO APERTO della sfida dell’uomo alpino
per la sopravvivenza. Il turista frettoloso che passa accanto a queste
strutture, che attraversa i pascoli ormai silenziosi riconquistati da mughi e
rododendri, che non avverte più il ritmato e festoso tintinnare dei campanacci,
indugi un attimo a ricordare con rispettoso affetto quei montanari liberi ed
orgogliosi che seppero vivere in un ambiente aspro e ostile, secondo abitudini di
cooperazione comunitaria mirabili e irripetibili.
NB:
il giro delle casère segue uno schema circolare in senso orario.
Le immagini non attribuite sono di
Achille Carbogno