Comelico Cultura    

Testo             Piergiorgio Cesco-Frare
Ricerche
        Piergiorgio Cesco-Frare e Italo Mina 

Al salvatcu d Cianpugón

Tunìn era lì già da un paio d'ore. Era salito a Ciampugón dal paese nel tardo pomeriggio. Nella piccola bàita aveva consumato una frugale cena ed ora stava seduto davanti l’uscio, la doppietta caricata a pallettoni sulle ginocchia. Erano quasi le nove di sera e Tunìn vedeva l'oscurità salire dalla valle del Pàdola laggiù in basso: di lì a poco tutte le cose ne sarebbero state avvolte. Non c'era la luna, tuttavia la luce, che ancora filtrava da ponente attraverso le cime di Popèra, faceva piovere da cielo sereno un chiarore soffuso che disegnava i contorni delle cose. Gli occhi di Tunìn erano puntati sul grande mucchio biancastro del gregge che, pur nel buio incipiente, spiccava sul pascolo lì difronte. Già da tempo le bestie si erano poste a giacere per il riposo notturno, strette le une accanto alle altre, ma ancora non s'erano acquietate. Ed era questo un segnale che rendeva inquieto anche Tunìn.

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L'aria si fa sempre più pungente e l'oscurità più fitta. Tunìn rientra nella bàita e, preparandosi ad una lunga veglia, si accinge ad alimentare la fiamma del focolare. Ma ecco che un improvviso strepito all'esterno gli fa cascare la legna dalle mani. È un belare disperato, un frastuono di campanacci, un tumulto di bestie al galoppo. "Vél ca!, eccolo!" pensa Tunìn. Afferra la doppietta e si slancia fuori della bàita verso il luogo dov’era il branco. Ma sul posto, nella semioscurità, vede solo una forma chiara che si dibatte sul terreno. "Liò à da és al salvatcu! Il selvatico dev’essere lì!" decide Tunìn e, puntato il fucile in quella direzione, spara in rapida successione due colpi. Allora succede una cosa assolutamente inaspettata: la figura biancastra, una delle pecore del gregge, salta su, gli passa accanto e si dirige di gran carriera verso la bàita. Tunìn la segue di corsa, la afferra e la conduce all'interno. Vede che sanguina dal collo, che è lacerato come da un terribile morso, e le lava e disinfetta alla meglio la ferita.

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Tunìn trascorse il resto della notte insonne, in compagnia della pecora e dei propri pensieri. Tra il desiderio di andare sul posto per verificare l'esito delle due fucilate ed il timore che il salvatcu si aggirasse lì attorno ancora incolume, prevalse in Tunìn quest'ultimo sentimento ed egli decise di attendere l'alba dentro la bàita. Quel pecoraio di Farés, degli Alfarè da Candide, che era precipitosamente sceso in paese con tutta la famiglia a chiedere aiuto, aveva riferito di tredici pecore uccise e di altre che portavano sul collo segni di zanne, e si era rifiutato di tornar su a Cianpugón fino a che ci fosse in giro stu salvatcu. Questo pensiero era sufficiente per consigliare a Tunìn, cui pure non mancava il coraggio, una buona dose di cautela. Di tanto in tanto egli si affacciava sull’uscio e tendeva l’orecchio se mai percepisse qualche segnale, ma solo lo stormire del vento tra i rami dei larici e il lamento di qualche un uccello notturno rompevano l’alto silenzio notturno. Dopo ore interminabili, finalmente sopra la costa della Spina spuntò l'alba e allora Tunìn si decise ad uscire. La doppietta carica, si avviò con circospezione verso il luogo dove aveva indirizzato i colpi. E, all'improvviso, lo vide. Il salvatcu era lì a qualche decina di metri da lui, come seduto, le zampe anteriori ritte, che lo guatava. Tunìn avvertì un formicolìo lungo la schiena e si arrestò di colpo. Il salvatcu continuava tuttavia a restare immobile, come imbalsamato. Allora Tunìn spianò l'arma e ricominciò ad avanzare lentissimamente. A mano a mano che si avvicinava, ne ravvisava l'aspetto spaventoso, le fauci spalancate, le zanne scoperte, la lingua penzoloni, i crudeli occhi come due fessure. Eppure non si muoveva. Tunìn si chiedeva se fosse morto per davvero. Ad ogni buon conto prese la mira e lasciò partire un colpo. Il salvatcu non si mosse ancora. Si avvicinò, lo toccò una, due volte colla canna del fucile: era proprio morto.

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Dalle creste e dalle forcelle del Popèra la luce del primo sole scivolava giù nei canaloni e nei catini, suscitando riflessi color rosa ed arancione. Tunìn sedeva rilassato sulla panca accanto al fuoco, all'interno della bàita. Sbocconcellando l'ultimo pane e formaggio, riandava con la mente a ciò che era successo nelle ultime ore. Le sue congetture notturne avevano trovato conferma: se la pecora, pur ferita, era riuscita a scappare, significava che i colpi erano arrivati a segno, costringendo la fiera a lasciare la preda. In effetti il fortunato colpo l'aveva fulminato nell'atto di azzannare, e la rigidità della morte ne aveva poi fissata l'espressione formidabile. Ma che razza di bestia era mai quella? A prima vista sembrava un grosso cane, ma quelle zampe, quel pelo, quelle zanne e, soprattutto, quello sguardo bieco Tunìn non li aveva mai visti a nessun cane. Ed una simile ferocia poi! Di certo doveva essere un lupo! Ma Tunìn, esperto cacciatore, sapeva che questo animale era estinto da tempo immemorabile non solo in Comèlico ma anche in tutti i territori vicini, e nemmeno i più vecchi tra i cacciatori suoi conoscenti avevano memoria di aver mai visto un lóu. Pensava anche a quei due, a Màscual e Luminiéra, che non avevano voluto salire con lui la sera precedente, ma che sarebbero, a sentir loro, venuti su quella mattina. Ma a che fare? Lui aveva visto giusto: le fiere agiscono di notte. E poi, con quei loro schioppi a palla, che avrebbero potuto fare nella semioscurità? Mentre così ragionava tra sé, Tunìn sentì voci fuori che lo chiamavano: "Ciò Tunìn, és camò davòi a durmì?, Ehi Tunìn, stai ancora dormendo?". Erano proprio quei due. Tunìn si fece sulla porta serio serio in volto. Ma sotto i baffi vibrava un sorriso a stento trattenuto. "E alóra mò, cómi? Bè', allora?" chiesero insieme i due. Tunìn era tentato di farla lunga, di divertirsi a tenerli un po' sulla corda, ma invece rispose semplicemente: "E alóra èi bél mazó ió! E allora l'ho già fatto fuori!". E, tagliando corto, li sospinse all'interno della bàita dove il salvatcu giaceva sul pavimento. Una buona ora se n'andò tra il racconto di Tunìn, fatto ripetere cinque o sei volte, ed i commenti ora increduli, ora meravigliati, ora ammirati, ora  un po' invidiosi dei due compari. Poi la preda fu legata per le zampe ad un grosso ramo di abete che Màscual e Luminiéra si caricarono sulle spalle, quindi i tre si misero in marcia. Il sole era già alto nel cielo quando essi entrarono in paese: mai giornata sembrò più radiosa a Tunìn.

Antonio Mina detto Tunìn di Minuta

L’episodio che abbiamo ricostruito accadde realmente nel lontano 1929 a Campobón (dial. Cianpugón) sulla sinistra orografica della valle del torrente Pàdola in quel di Comèlico Superiore (BL). Questa località, posta a circa 1900 m di quota, era un pascolo di pecore dotato di una piccola bàita di tronchi ad uso di ricovero per i pastori, un po’ a monte della recente costruzione in muratura. Il protagonista del singolare avvenimento è Antonio Mina detto Tunìn di Minuta di Casamazzagno, gli altri due sono Luminiéra alias Osvaldo De Lorenzo di Candide e Màscual alias Riccardo Bergamasco forestiero di non precisata origine. Qualche cenno a questa vicenda già si è letto in alcune pubblicazioni – anche sulle pagine di questa rivista – ma mancava sinora una ricostruzione puntuale dei fatti. Inoltre, le scarne versioni sinora apparse travisano in parte la realtà, mettendo in secondo piano la figura del vero protagonista. Noi riportiamo la narrazione fattaci anni or sono dalla figlia dello stesso Tunìn, Angela (deceduta nel 1999), la quale ci fornì anche i materiali iconografici qui pubblicati. Ma, per dare a Tunìn ciò che è di Tunìn e anche al lupo (perché, come si vedrà, di vero lupo si trattava) ciò che è del lupo, ecco il seguito della vicenda.

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 Dunque, i tre entrano in paese (Casamazzagno di Comèlico) ed è facile immaginare il subbuglio che subito si spande in giro. Arrivano alla casa di Tunìn ed il lupo viene sistemato nella stua sulla panca accanto al forno, al posto d'onore. Immaginiamo la processione di gente che viene a mirare il mostro ed i commenti i più disparati. Arriva anche la guardia comunale e non tardano a farsi vivi i Carabinieri, dai quali Tunìn aveva ricevuto, in qualità di direttore dei pascoli frazionali, il tacito assenso all'intervento armato. Sbuca pure un fotografo professionista (un di Talés) che riesce a fissare sulla lastra le immagini fresche fresche dei tre in tenuta da combattimento e della belva. Il giorno dopo è domenica ed il rituale fotografico si ripete, stavolta in abiti da festa. Poi Tunìn deve necessariamente sbarazzarsi della vittima: la scuoia, ne conserva la pelle ed il cranio e ne sotterra il resto. Ma eccoti il veterinario incaricato di indagare: fa esumare i resti e li esamina insieme con la pelle ed il cranio. L'intestino appare "dritto" ed il cranio fortemente carenato sulla sommità: Canis lupus, non si discute (sarebbe forse di qualche interesse rintracciare il referto come pure andare a rileggere la notizia apparsa su "Il Gazzettino" dell'epoca - cosa non riuscita agli autori della ricerca- per approfondire l'argomento dal punto di vista della scienza). Infine, data e luogo del fatto: qui ci viene in aiuto una nota manoscritta dello stesso Tunìn, apposta come didascalia al quadretto contenente le fotografie dell'avvenimento: «Il Sig. Mina Antonio fu Giovanni Con faticha e coraggiosa arditezza la sera del 24 Maggio 1929 e precisamente alle ore 21 nella Loccalità Campu Gon riusci da solo à colpire a Morte un furioso Lupo che ivi spargeva il terrore in un gregge di Peccore sparse in quei dintorni, Nel momento stesso riusci a salvare una peccora che L'animale Ferroce e furioso aveva azzannato».

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Per concludere, ci piace riportare un breve profilo di Tunìn uscito qualche anno fa dalla penna della sua compaesana Giovanna Festini Cucco di Rodi, nata nel 1900 e morta nel 1999, rimasta sino all’ultimo prezioso archivio di memorie paesane.

“Mina Antonio fu Giovanni classe 1877.

Non è facile tracciare un profilo di Tunìn di Minuta schivo come era di mettersi in mostra, ma di animo buono e generoso. Primo di otto, tra fratelli e sorelle, la prima infanzia la passò in famiglia patriarcale (24 membri). Giovane, forte e robusto emigrò in Austria. Si formò una famiglia con tre figli [Giovanna, Angela e Alberto]. Con grandi sacrifici, assieme ai fratelli si costruiva negli anni 1909-1912 una grande casa con quaranta stanze, detta poi "il palazzo dei Minuta".

Partecipò alla Grande Guerra '915-'918.

Appassionato della natura, esperto in agricoltura, grande ecologico, quando negli anni 1920-30 di ecologia nessuno parlava, con tenace lavoro quotidiano trasformò a Costasecca il terreno da prato magro e paludoso in una fertile campagna con campi di segale, orzo e avena. Con perseveranza e pazienza ottenne dai [...], fiori delle patate, estraendo i piccoli semi, nel giro di pochi anni un raccolto di patate normali.

Si costruì anche un tabierùtu [piccolo tabià, stalla con fienile] su su ai Ronchi, e scavando le fondamenta, trovò una specie di massicciata e i resti di un focolare, ben conservati, e questa scoperta egli la collegava con la vicinanza di "Mas Giavaden" località abitata dagli antenati".

Per sodisfare ad un voto, costruì sempre a Costasecca un bel capitello, e con tante varietà di pietre, portate dal Monte Cavallino e dal Popera, ne decorò la facciata, come un mosaico, da sembrare delle pietre preziose per la vivacità dei colori.

Esperto cacciatore, ebbe il merito, dopo appostamenti, di uccidere a Campobon un lupo venuto da chissà dove, che faceva strage di pecore e agnelli. Le foto dell'epoca, che lo ritraggono con il lupo sulle spalle assieme a Luminiera non sono che delle comparse”.

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Un giorno di marzo del 1954 Tunìn andò a raggiungere in qualche pascolo del cielo il lupo di Cianpugón.

Piergiorgio Cesco-Frare
Sezione Val Comelico